Il mercato britannico dal 2000 al 2016 ha occupato una fetta media del 5,6% dell’export italiano, una quota che, sebbene fosse inferiore in maniera significativa a quella presa da Germania ed Italia, era particolarmente importante per lo sbocco di alcuni settori specifici.
Si parla principalmente di bevande spiritose e vini, in cui attualmente la Gran Bretagna si prende il 12% dell’export, pari a poco più di un miliardo, dato aggiornato al 2016. Probabile che anche dopo la Brexit i rapporti rimarranno importanti dal punto di vista numerico e da quello economico, ma l’uscita dai confini dell’Unione porterà sicuramente all’introduzione di pesanti dazi ed altre limitazioni.
Se si applicassero i regolamenti tariffari vigenti tra Ue e resto del mondo, infatti, come vuole la prassi e salvo l’utilizzo di escamotage volti a salvare il settore, questi beni sarebbero gravati da dazi pari al 19%, un tasso fra i più alti dell’attuale scala messa a punto dall’Ue per i traffici.
Il mercato agroalimentare è quello più in bilico: il rischio principale è la fine degli scambi per le merci “fresche”, ovvero per tutti quei tipi di merce che al momento riescono a raggiungere la Gran Bretagna con velocità e si mantengono tali, ma che con la Brexit potrebbero risentire dei rallentamenti dei tempi oltre alle pesanti tariffe.
Brexit: tutte le opportunità da sfruttare
E’ importante precisare, però, che la stessa uscita della Gran Bretagna dall’Unione permetterebbe potenzialmente all’Italia di intercettare una cifra di almeno 25 miliardi di euro di investimenti. L’Italia potrebbe conseguentemente beneficiare anche dell’inevitabile crisi di alcuni motori chiave dell’economia britannica, che avevano nella liberalizzazione degli scambi e delle comunicazioni la garanzia del proprio funzionamento.
Le multinazionali britanniche, che in un Paese moderno come la Gran Bretagna controllano una cifra imponente del PIL nazionale, con la Brexit potrebbero perdere il vantaggio del passaporto unico, ovvero l’opportunità, in particolare per le istituzioni finanziarie, di operare in tutta l’Unione. La crisi di questi settori potrebbe portare al resto dell’Unione 282 miliardi di euro, e saranno i Paesi con più “appeal” a guadagnarsi la fetta maggiore.